venerdì 2 ottobre 2015

IL FATTO PUO' ESSERE LIEVE MA NON TENUE

La Corte di Cassazione con la sentenza 27246/2015 ricorda come uno stesso fatto può essere lieve, e non essere, al contempo, anche particolarmente tenue, attesochè un grado minore di disvalore connota il fatto particolarmente tenue rispetto a quello di lieve entità.

Ne consegue che se un fatto non è di lieve entità non deve considerarsi di particolare tenuità.

per leggere la sentenza cliccate sopra

giovedì 18 giugno 2015

La ritualità dalle notifica di un atto giudiziario a mezzo posta in uno degli altri Stati membri dell’Unione Europea (esclusa la Danimarca) per la Corte di Cassazione.

La Corte di Cassazione (sezione III) con la sentenza n. 10543 del 22/05/2015 ha affermato che la notifica di un atto giudiziario a mezzo posta in uno degli altri Stati membri dell’Unione Europea (esclusa la Danimarca) è rituale, ai sensi degli artt. 14 o 15 del Regolamento CE n. 1393/2007 del 13 novembre 2007, salva la facoltà di opposizione dello Stato membro prevista dall’art. 15, derivandone il corretto rilascio del certificato di titolo esecutivo europeo per il decreto ingiuntivo notificato a mezzo posta al debitore dell’altro Stato.

Ha pertanto ai sensi dell'art. 363 cpc comma 3° affermato il seguente principio di diritto:
"è rituale la notifica di un atto giudiziario a mezzo posto in uno degli altri Stati membri dell'Unione Europea (ad esclusione della Danimarca), ai sensi degli articoli 14 o 15 del Regolamento CE n. 1393/2007 del 13 novembre 2007 (salva la facoltà di opposizione dello Stato membro prevista dall'art. 15), dovendosi la facoltà di procedervi riferirsi a tutti gli organi preposti alla notifica in ciascuno degli Stati membri; e, poichè è di conseguenza ed a maggior ragione integrato il requisito del capoverso dell'art. 18 del Regolamento CE n. 805 del 21 aprile 2004, correttamente è rilasciato il certificato di titolo esecutivo europeo per il decreto ingiuntivo disciplinato dagli artt. 633 ss. del codice di procedura civile italiano, notificato a debitore di altro Stato membro a mezzo posta, una volta divenuto definitivo per irrituale opposizione, neppure rilevando in contrario che ad esso egli si sia opposto con atto poi qualificato invalido per insanabile nullità della sua propria notifica."

venerdì 29 maggio 2015

Cassazione Penale 14960/2015: Lo straniero, imputato di un delitto contro la persona, non può invocare, anche in via solo putativa, la scriminante dell’esercizio di un diritto correlata a facoltà asseritamente riconosciute dall’ordinamento dello Stato di provenienza, qualora tale diritto debba ritenersi in linea di principio escluso dall’ordinamento interno, in una prospettiva imperniata – in linea con l’art. 3 Cost. – sulla centralità della persona umana, quale principio in grado di armonizzare le condotte individuali rispondenti a culture diverse, e di consentire quindi l’instaurazione di una società civile multietnica.

La Corte di Cassazione sezione III^ con la sentenza n. 14960/2015 depositata il 13/04/2015 ha così osservato: "in una società multietnica non è concepibile la scomposizione dell'ordinamento in altrettanti statuti individuali quante sono le etnie che la compongono, non essendo compatibile con l'unicità della tessuto sociale - e quindi con l'unicità dell'ordinamento giuridico - l'ipotesi della convivenza in un unico contesto civile di culture tra loro confliggenti.
La soluzione - costituzionalmente orientata in relazione alla disposizione dell'art. 3 Cost. Rep., che in un unico contesto normativo attribuisce a tutti i cittadini pari dignità sociale e posizione di uguaglianza nei confroni della legge, senza distinzione,m in particolare, di sesso, di razza, di lingua, di religione, e impegna la Repubblca a rimuovere gli ostacoli di ordine sociale, che, limitando di fatto la liberà e l'uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana - civilmente e giuridicamente praticabile è quella opposta, che armonizza i comportamenti individuali rispondenti alla varietà delle culture in base al principio unificato delle centralità della persona umana, quale denominatore minimo comune per l'instaurazione di una società civile.
In questo quadro concettuale si profila, come essenziale per la stessa sopravvivenza della società multietnica, l'obbligo giuridico di chiunque vi si inserisce di verificare preventivamente la compatibilità dei propri comportamenti con i principi che la regolano e quindi della liceità di essi in relazione all'ordinamento giuridico che la disciplina, non essendo di conseguenza riconoscibile una posizione di buona fede in chi, pur nella consapevolezza di essersi trasferito in un paese diverso e in una società in cui convivono culture e costumi differenti dai propri, presume di avere il diritto - non riconosciuto da alcuna norma internazionale - di proseguire condotte che, seppure ritenute culturalmente accettabili e quindi lecite secondo le leggi vigenti nel paese di provenienza, risultano oggettivamente incompatibili con le regole proprie della compagine sociale in cui ha scelto di vivere.
In tali condotte non è pertanto configurabile una scriminante, anche solo putativa, fondata sull'ercizion di un presunto diritto escluso in linea di principio dall'ordinamento (Cass., Sez. 6, 26 aprile 2011 n. 26153, ric. C.), e quindi neppure l'eccesso colposo nella scriminante stessa."

mercoledì 15 aprile 2015

la convivenza concretante una famiglia di fatto dopo il divorzio esclude l'obbligo di corresponsione di assegno divorzile anche se tale famiglia di fatto in seguito cessi

La Corte di Cassazione con la sentenza 6855 depositata il 03/04/2015 ha affermato che:
<sembra a questo Collegio assai più coerente, ..., affermare che una famiglia di fatto, espressione di una scelta esistenziale, libero e consapevole, da parte del coniuge, eventualmente potenziata dalla nascita di figli (ciò che dovrebbe escludere ogni residua solidarietà postmatrimoniale con l'altro coniuge) dovrebbe essere necessariamente caratterizzata dalla assunzione piena di un rischio, in relazione alle vicende successive della famiglia di fatto, mettendosi in conto la possibilità di una cessazione del rapporto tra i conviventi (ferma restando evidentemente la permanenza di ogni obbligo verso i figli).
Va per di più considerata la condizione del coniuge, che si vorrebbe nuovamente obbligato e che, invece, di fronte alla costituzione di una famiglia di fatto tra il proprio coniuge e un altro partner, necessariamente stabile e duratura confiderebbe, all'evidenza, nell'esonero definitivo da ogni obbligo.>

Pertanto viene escluso il fenomeno della quiescenza del diritto all'assegno nel caso di convivenza costituente un vero e proprio rapporto di famiglia di fatto intrapreso dall'ex coniuge, dovendosi invece ritenere definitiva la cessazione dell'obbligo.

lunedì 23 marzo 2015

I LIMITI DELL'EFFETTO RETROATTIVO DELLA PRONUNCIA DI ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE

Come ha avuto modo di affermare recentemente la Corte Costituzionale con la sentenza n. 10/2015 

<Questa Corte ha già chiarito (sentenze n. 49 del 1970, n. 58 del 1967 e n. 127 del 1966) che l’efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale è (e non può non essere) principio generale valevole nei giudizi davanti a questa Corte; esso, tuttavia, non è privo di limiti.
Anzitutto è pacifico che l’efficacia delle sentenze di accoglimento non retroagisce fino al punto di travolgere le «situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili» ovvero i «rapporti esauriti». Diversamente ne risulterebbe compromessa la certezza dei rapporti giuridici (sentenze n. 49 del 1970, n. 26 del 1969, n. 58 del 1967 e n. 127 del 1966). Pertanto, il principio della retroattività «vale […] soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida» (sentenza n. 139 del 1984, ripresa da ultimo dalla sentenza n. 1 del 2014). In questi casi, l’individuazione in concreto del limite alla retroattività, dipendendo dalla specifica disciplina di settore – relativa, ad esempio, ai termini di decadenza, prescrizione o inoppugnabilità degli atti amministrativi – che precluda ogni ulteriore azione o rimedio giurisdizionale, rientra nell’ambito dell’ordinaria attività interpretativa di competenza del giudice comune (principio affermato, ex plurimis, sin dalle sentenze n. 58 del 1967 e n. 49 del 1970).
Inoltre, come il limite dei «rapporti esauriti» ha origine nell’esigenza di tutelare il principio della certezza del diritto, così ulteriori limiti alla retroattività delle decisioni di illegittimità costituzionale possono derivare dalla necessità di salvaguardare principi o diritti di rango costituzionale che altrimenti risulterebbero irreparabilmente sacrificati. In questi casi, la loro individuazione è ascrivibile all’attività di bilanciamento tra valori di rango costituzionale ed è, quindi, la Corte costituzionale – e solo essa – ad avere la competenza in proposito.
Una simile graduazione degli effetti temporali delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale deve ritenersi coerente con i principi della Carta costituzionale: in tal senso questa Corte ha operato anche in passato, in alcune circostanze sia pure non del tutto sovrapponibili a quella in esame (sentenze n. 423 e n. 13 del 2004, n. 370 del 2003, n. 416 del 1992, n. 124 del 1991, n. 50 del 1989, n. 501 e n. 266 del 1988).
Il compito istituzionale affidato a questa Corte richiede che la Costituzione sia garantita come un tutto unitario, in modo da assicurare «una tutela sistemica e non frazionata» (sentenza n. 264 del 2012) di tutti i diritti e i principi coinvolti nella decisione. «Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette»: per questo la Corte opera normalmente un ragionevole bilanciamento dei valori coinvolti nella normativa sottoposta al suo esame, dal momento che «[l]a Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi» (sentenza n. 85 del 2013).
Sono proprio le esigenze dettate dal ragionevole bilanciamento tra i diritti e i principi coinvolti a determinare la scelta della tecnica decisoria usata dalla Corte: così come la decisione di illegittimità costituzionale può essere circoscritta solo ad alcuni aspetti della disposizione sottoposta a giudizio – come avviene ad esempio nelle pronunce manipolative – similmente la modulazione dell’intervento della Corte può riguardare la dimensione temporale della normativa impugnata, limitando gli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale sul piano del tempo.
Del resto, la comparazione con altre Corti costituzionali europee – quali ad esempio quelle austriaca, tedesca, spagnola e portoghese – mostra che il contenimento degli effetti retroattivi delle decisioni di illegittimità costituzionale rappresenta una prassi diffusa, anche nei giudizi in via incidentale, indipendentemente dal fatto che la Costituzione o il legislatore abbiano esplicitamente conferito tali poteri al giudice delle leggi.
Una simile regolazione degli effetti temporali deve ritenersi consentita anche nel sistema italiano di giustizia costituzionale.
Essa non risulta inconciliabile con il rispetto del requisito della rilevanza, proprio del giudizio incidentale (sentenza n. 50 del 1989). Va ricordato in proposito che tale requisito opera soltanto nei confronti del giudice a quo ai fini della prospettabilità della questione, ma non anche nei confronti della Corte ad quem al fine della decisione sulla medesima. In questa chiave, si spiega come mai, di norma, la Corte costituzionale svolga un controllo di mera plausibilità sulla motivazione contenuta, in punto di rilevanza, nell’ordinanza di rimessione, comunque effettuato con esclusivo riferimento al momento e al modo in cui la questione di legittimità costituzionale è stata sollevata. In questa prospettiva si spiega, ad esempio, quell’orientamento giurisprudenziale che ha riconosciuto la sindacabilità costituzionale delle norme penali di favore anche nelle ipotesi in cui la pronuncia di accoglimento si rifletta soltanto «sullo schema argomentativo della sentenza penale assolutoria, modificandone la ratio decidendi […], pur fermi restando i pratici effetti di essa» (sentenza n. 148 del 1983, ripresa sul punto dalla sentenza n. 28 del 2010).
Né si può dimenticare che, in virtù della declaratoria di illegittimità costituzionale, gli interessi della parte ricorrente trovano comunque una parziale soddisfazione nella rimozione, sia pure solo pro futuro, della disposizione costituzionalmente illegittima.
Naturalmente, considerato il principio generale della retroattività risultante dagli artt. 136 Cost. e 30 della legge n. 87 del 1953, gli interventi di questa Corte che regolano gli effetti temporali della decisione devono essere vagliati alla luce del principio di stretta proporzionalità. Essi debbono, pertanto, essere rigorosamente subordinati alla sussistenza di due chiari presupposti: l’impellente necessità di tutelare uno o più principi costituzionali i quali, altrimenti, risulterebbero irrimediabilmente compromessi da una decisione di mero accoglimento e la circostanza che la compressione degli effetti retroattivi sia limitata a quanto strettamente necessario per assicurare il contemperamento dei valori in gioco>

SOLO LA CORTE COSTITUZIONALE PUO' DUNQUE LIMITARE L'EFFICACIA RETROATTIVA DELLA PRONUNCIA DI INCOSTITUZIONALITA' IN MERITO AI RAPPORTI NON ESAURITI

lunedì 9 marzo 2015

Sentenza copia/incolla? Non è nulla se ...

Con la sentenza n. 642 del 16/01/2015 le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato il seguente principio di diritto:
<"Nel processo civile - ed in quello tributario, in virtù di quanto disposto dal secondo comma dell'art. 1 d.lgs. n. 546 del 1992 - non può ritenersi nulla la sentenza che esponga le ragioni della decisione limitandosi a riprodurre il contenuto di un atto di parte (ovvero di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari) eventualmente senza nulla aggiungere ad esso, sempre che in tal modo risultino comunque attribuibili al giudicante ed esposte in maniera chiara, univoca ed esaustiva, le ragioni sulle quali la decisione è fondata. È inoltre da escludere che, alla stregua delle disposizioni contenute nel codice di rito civile e nella Costituzione, possa ritenersi sintomatico di un difetto di imparzialità del giudice il fatto che la motivazione di un provvedimento giurisdizionale sia, totalmente o parzialmente, costituita dalla copia dello scritto difensivo di una delle parti">

Nella sentenza si legge tra l'altro che <Il codice prevede infatti solo che il giudice assuma una decisione ed esponga poi le ragioni di tale decisione (coincidenti o meno che siano, in tutto o in parte, con quelle esposte da uno dei contendenti a sostegno delle proprie pretese), ma non prevede altresì che, in una sorta circolo vizioso, esponga anche i motivi per i quali abbia eventualmente condiviso le ragioni sostenute da una delle parti, posto che tali ragioni, se valide, sono idonee di per sé a sostenere la decisione assunta, senza che sia necessaria una ulteriore motivazione riguardante (non già le ragioni della decisione bensì) le ragioni per cui le suddette "ragioni della decisione" corrispondono a quelle esposte da una delle parti a sostegno delle proprie pretese.
Certo, è possibile che quanto affermato da una parte sia "contrastato" (in fatto e in diritto) dall'altra parte, ed in questo caso la sentenza nella quale il giudice si limitasse a riportare le ragioni esposte da una delle parti senza prendere in considerazione quelle contrapposte dall'altra sarebbe censurabile se ed in quanto oggettivamente incompleta, non certo per la mancata esplicitazione dei motivi di adesione alle tesi di una delle parti né tanto meno per il solo fatto che la relativa motivazione risulta costituita dalla mera riproduzione del contenuto di un atto di parte.
L'unico problema reale di una motivazione siffatta sorge infatti solo se il contenuto dell'atto riportato a scopo motivazionale non è idoneo e sufficiente a sostenere la decisione. Esclusivamente in questo caso quindi, e solo per tale motivo, non per altri, la sentenza sarebbe censurabile.>



martedì 10 febbraio 2015

Per la Cassazione la AUTOSUFFICIENZA DEL RICORSO si applica anche in sede penale.

Così la Suprema Corte di Cassazione II^ Sezione con la sentenza n. 677 ud. 10/10/2014 - deposito del 12/01/2015:

<In tema di ricorso per cassazione va recepita e applicata anche in sede penale la teoria della "autosufficienza del ricorso", elaborata in sede civile; ne consegue che, quando i motivi riguardino specifici atti processuali, la cui compiuta valutazione si assume essere stata omessa o travisata, è onere del ricorrente suffragare la validità del suo assunto mediante allegazione o la completa trascrizione dell'integrale contenuto degli atti specificamente indicati, non potendo egli limitarsi ad invitare la Corte Suprema alla lettura degli atti indicati posto che anche in sede penale è preclusa al giudica di ligittimità l'esame diretto degli atti del processo>

mercoledì 7 gennaio 2015

SOLO TENTATIVO di FURTO se vi sono apparati di rilevazione automatica del movimento della merce o dipendenti addetti alla sorveglianza

Le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 52117 depositata il 16/12/2014 hanno affermato il seguente principio di diritto: "il monitoraggio nella attualità della azione furtiva avviata, esercitato sia mediante la diretta osservazione della persona offesa (o dei dipendenti addetti alla sorveglianza o delle forze dell'ordine presenti in loco,), sia mediante appositi apparati di rilevazione automatica del movimento della merce, e il conseguente intervento difensivo in continenti, a tutela della detenzione, impediscono la consumazione del delitto di furto, che resta allo stadio del tentativo, in quanto l'agente non ha conseguito, neppure momentaneamente, l'autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva, non ancora uscita dalla sfera di vigilanza e di controllo diretto del soggetto passivo".
Questo perchè "... appare difficilmente confutabile - e il dato deve ritenersi acquisito per generale consenso e in carenza di veruna apprezzabile obiezione - che l'impossessamento del soggetto attivo del delitto di furto postuli il conseguimento della signoria del bene sottratto, intesa come piena, autonoma ed effettiva disponibilità della refurtiva da parte dell'agente.
Sicchè, laddove esso è escluso dalla concomitante vigilanza, attuale e immanente, della persona offesa e dall'intervento esercitato in continenti a difesa della detenzione del bene materialmente appreso, ma ancora non uscito dalla sfera del controllo del soggetto passivo, la incompiutezza dell'impossessamento osta alla consumazione del reato e circoscrive la condotta delittuosa nell'ambito del tentativo.
La conclusione riceve conforto dalla considerazione dell'oggetto giuridico del reato alla luce del principio di offensività.
In tale prospettiva, di recente valorizzata quale canone ermeneutico di ricostruzione dei "singoli tipi di reato" da Sez. U, n. 40354 del 18/07/2013, Sciuscio, il fondamento della giustapposizione tra il delitto tentato e quello consumato (e del differenziato regime sanzionatorio) risiede nella compromissione dell'interesse protetto dalla norma incriminatrice.
Affatto coerente risulta, pertanto, l'aggancio della consumazione del furto alla completa rescissione (anche se istantanea) della "signoria che sul bene esercitava il detentore", come esattamente individuato dalla citata sentenza n. 8445 del 2013, Niang. Mentre, di converso, se lo sviluppo dell'azione delittuosa non abbia comportato ancora la uscita del bene dalla sfera di vigilanza e di controllo dell'offeso, è per vero confacente, alla stregua del parametro della offensività, la qualificazione della condotta in termini di tentativo."