giovedì 30 maggio 2013

I LIMITI GENERALI ALLA EFFICACIA RETROATTIVA DELLE LEGGI PER LA CORTE COSTITUZIONALE

Così la Corte Costituzionale con la sentenza 103/2013 

<Questa Corte ha ripetutamente affermato che il divieto di retroattività della legge, previsto dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in generale, pur costituendo valore fondamentale di civiltà giuridica, non riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25 Cost. (sentenze n. 78 e n. 15 del 2012, n. 236 del 2011, e n. 393 del 2006), e che «il legislatore – nel rispetto di tale previsione – può emanare norme retroattive, anche di interpretazione autentica, purché la retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono altrettanti «motivi imperativi di interesse generale», ai sensi della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU). La norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica, quindi, non può dirsi costituzionalmente illegittima qualora si limiti ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo originario (ex plurimis: sentenze n. 271 e n. 257 del 2011, n. 209 del 2010 e n. 24 del 2009). In tal caso, infatti, la legge interpretativa ha lo scopo di chiarire «situazioni di oggettiva incertezza del dato normativo», in ragione di «un dibattito giurisprudenziale irrisolto» (sentenza n. 311 del 2009), o di «ristabilire un’interpretazione più aderente alla originaria volontà del legislatore» (ancora sentenza n. 311 del 2009), a tutela della certezza del diritto e dell’eguaglianza dei cittadini, cioè di principi di preminente interesse costituzionale. Accanto a tale caratteristica, questa Corte ha individuato una serie di limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi, attinenti alla salvaguardia, oltre che dei principi costituzionali, di altri fondamentali valori di civiltà giuridica, posti a tutela dei destinatari della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza dell’ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni costituzionalmente riservate al potere giudiziario (sentenza n. 209 del 2010, citata, punto 5.1, del Considerato in diritto).>

Puoi leggere la sentenza per esteso premendo qui

lunedì 20 maggio 2013

MEMENTO: Corte Costituzionale e Corte di Giustizia, due lingue diverse!

Nella sentenza n. 166/2012 la Corte Costituzionale afferma:
<5.2.– Anche in relazione all’asserito contrasto con l’art. 41 Cost., questa Corte ne ha escluso la sussistenza. I dipendenti pubblici (come rimarca la stessa Corte rimettente a motivo della ritenuta manifesta infondatezza delle questioni relative alla dedotta violazione del diritto comunitario) «non svolgono servizi configuranti un’attività economica e la loro attività non può essere considerata come quella di un’impresa». Sicché, la legge n. 339 del 2003 incide non tanto sulle modalità di organizzazione della professione forense in termini rispettosi dei princìpi di concorrenza, quanto sul modo di svolgere il servizio presso enti pubblici, ai fini del soddisfacimento dell’interesse generale all’esecuzione della prestazione di lavoro pubblico secondo canoni di imparzialità e buon andamento, oltre che ad un corretto esercizio della professione legale.>

Ma la Corte di Giustizia nella sentenza C-225/09 aveva avuto modo di stabilire:
<33     La ricevibilità della quarta questione pregiudiziale non è, del resto, inficiata dall’argomento del governo ungherese secondo cui la legge n. 339/2003, riguardando i dipendenti pubblici, non disciplina nessuna delle situazioni di cui all’art. 8 della direttiva 98/5, che concerne solo gli avvocati che lavorano in qualità di lavoratori subordinati «di un altro avvocato, di un’associazione o società di avvocati, di [un’impresa pubblica o privata]».
34      Al riguardo occorre ricordare che la deroga richiamata dal governo ungherese – vale a dire l’inapplicabilità del diritto dell’Unione ai dipendenti pubblici – vale unicamente per gli impieghi che comportino una partecipazione all’esercizio di pubblici poteri e che presuppongano, pertanto, l’esistenza di un particolare rapporto con lo Stato. Per contro, le norme del diritto dell’Unione in materia di libera circolazione restano applicabili ad impieghi che, pur dipendendo dallo Stato o da altri enti pubblici, non implicano tuttavia alcuna partecipazione a compiti spettanti alla pubblica amministrazione propriamente detta (v. in tal senso, in particolare, sentenze 30 settembre 2003, causa C‑405/01, Colegio de Oficiales de la Marina Mercante Española, Racc. pag. I‑10391, punti 39 e 40, nonché 10 dicembre 2009, causa C‑345/08, Peśla, non ancora pubblicata nella Raccolta, punto 31).
35      Quanto, più precisamente, alla nozione di impresa pubblica che figura all’art. 8 della direttiva 98/5, secondo giurisprudenza consolidata, allorché un ente integrato nell’amministrazione pubblica esercita attività che presentano un carattere economico e non rientrano nell’esercizio di prerogative dei pubblici poteri, esso dev’essere considerato come una siffatta impresa (v., in tal senso, sentenze 27 ottobre 1993, causa C‑69/91, Decoster, Racc. pag. I‑5335, punto 15; 14 settembre 2000, causa C‑343/98, Collino e Chiappero, Racc. pag. I‑6659, punto 33, nonché 26 marzo 2009, causa C‑113/07 P, SELEX Sistemi Integrati/Commissione, Racc. pag. I‑2207, punto 82).
36      Da ciò consegue che l’ambito di applicazione della legge n. 339/2003 – la quale, letta in combinato disposto con il regio decreto legge 27 novembre 1933, n. 1578, cui fa rinvio, riguarda gli avvocati iscritti all’albo di uno degli ordini degli Avvocati della Repubblica italiana che hanno anche un rapporto d’impiego presso una pubblica amministrazione o un’istituzione pubblica soggetta a tutela o a vigilanza della Repubblica italiana o di un suo ente territoriale – coincide con quello dell’art. 8 della direttiva 98/5 per quanto concerne gli avvocati impiegati da un ente che, benché soggetto a vigilanza dello Stato italiano o di uno dei suoi enti locali, costituisca un’«[impresa pubblica]»

MEMENTO: cosa afferma la sentenza PLANTANOL in tema di tutela dell'affidamento.

La Corte Costituzionale con la sentenza 166/2012, per giustificare la legittimità costituzionale dell'art. 2 della L. 339/2003, afferma che la Corte di Giustizia avrebbe ribadito ".. con forza, in ordine al principio della tutela dell’affidamento, la propria giurisprudenza costante secondo cui gli amministrati non possono legittimamente confidare nella «conservazione di una situazione esistente che può essere modificata nell’ambito del potere discrezionale delle autorità nazionali (sentenza 10 settembre 2009, causa C-201/08, Plantanol, Racc. pag. I-8343, punto 53 e giurisprudenza ivi citata)» (punto 44)"

Beh dispiace SOTTOLINEARE come la sentenza Plantanol, dopo tale prima osservazione abbia, come è ovvio, affermato al punto 57 che "Tuttavia, spetta al giudice del rinvio decidere se un operatore economico prudente ed accorto poteva essere in grado di prevedere la possibilità di tale abolizione in un contesto come quello della causa principale. Trattandosi di un regime previsto da una normativa nazionale, è tenendo conto delle modalità di informazione di regola utilizzate dallo Stato membro che l’ha adottata e delle circostanze del caso di specie che tale giudice deve valutare, globalmente e in concreto, se sia stato debitamente rispettato il legittimo affidamento degli operatori economici considerati dalla detta normativa".


MEMENTO: ECCO COSA DICEVA IL PRESIDENTE DEL CONSIGLIO DEI MINISTRI NEL 1999!

Nella ordinanza n. 183/1999 possiamo leggere cosa affermava il Presidente del Consiglio dei Ministri per bocca dell'Avvocatura di Stato in merito agli avvocati dipendenti pubblici a tempo parziale:

<... è intervenuto il Presidente del Consiglio dei Ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura dello Stato, la quale ha concluso per l'infondatezza, osservando preliminarmente che la norma censurata ha natura innovativa (e non interpretativa) e nel merito sostenendo che il contemporaneo svolgimento della professione forense e del rapporto di pubblico impiego non comporterebbe alcun conflitto fra i doveri del difensore e quelli del dipendente pubblico, i quali "restano su piani diversi">

MEMENTO: che fine ha fatto la diversità di situazione affermata dalle Sezioni Unite nel 2001?

Nel 2001 con la sentenza 8748 le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato che vi è diversità di situazione al fine della iscrizione all'albo degli avvocati tra il dipendente pubblico part -time e il dipendente (part time) di enti privati.

<Siffatta interpretazione della normativa, che rende incompatibile l'iscrizione all'albo degli avvocati dei dipendenti di enti privati, si intende qui ribadire, non costituendo argomenti sufficienti per un diverso orientamento il riferimento (peraltro generico) alle direttive CEE e l'invocato art. 1, comma 56-bis della legge n. 662 del 1996, come integrato dall'art. 6, n. 2, della legge 28 marzo 1997 n. 79, che consente l'iscrizione agli albi e l'esercizio di attività professionali ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, tenuto conto dell'obiettiva diversità della situazione in cui versano i dipendenti privati che non si trovano in quella condizione di autonomia che costituisce il presupposto della libera professione forense.>

giovedì 16 maggio 2013

Stop ai dipendenti pubblici part time avvocati

Le Sezioni Unite della Cassazione con la sentenza n. 11833/2013 riportano le lancette al 1933 confermando incompatibilità stereotipe.
Dimenticano il principio di proporzionalità per cui
<... l’art. 8 della direttiva 98/5 dev’essere interpretato nel senso che lo Stato membro ospitante può imporre agli avvocati ivi iscritti e che siano impiegati – vuoi a tempo pieno vuoi a tempo parziale – presso un altro avvocato, un’associazione o società di avvocati oppure un’impresa pubblica o privata, restrizioni all’esercizio concomitante della professione forense e di detto impiego, sempreché tali restrizioni non eccedano quanto necessario per conseguire l’obiettivo di prevenzione dei conflitti di interesse e si applichino a tutti gli avvocati iscritti in detto Stato membro. >