lunedì 23 marzo 2015

I LIMITI DELL'EFFETTO RETROATTIVO DELLA PRONUNCIA DI ILLEGITTIMITA' COSTITUZIONALE

Come ha avuto modo di affermare recentemente la Corte Costituzionale con la sentenza n. 10/2015 

<Questa Corte ha già chiarito (sentenze n. 49 del 1970, n. 58 del 1967 e n. 127 del 1966) che l’efficacia retroattiva delle pronunce di illegittimità costituzionale è (e non può non essere) principio generale valevole nei giudizi davanti a questa Corte; esso, tuttavia, non è privo di limiti.
Anzitutto è pacifico che l’efficacia delle sentenze di accoglimento non retroagisce fino al punto di travolgere le «situazioni giuridiche comunque divenute irrevocabili» ovvero i «rapporti esauriti». Diversamente ne risulterebbe compromessa la certezza dei rapporti giuridici (sentenze n. 49 del 1970, n. 26 del 1969, n. 58 del 1967 e n. 127 del 1966). Pertanto, il principio della retroattività «vale […] soltanto per i rapporti tuttora pendenti, con conseguente esclusione di quelli esauriti, i quali rimangono regolati dalla legge dichiarata invalida» (sentenza n. 139 del 1984, ripresa da ultimo dalla sentenza n. 1 del 2014). In questi casi, l’individuazione in concreto del limite alla retroattività, dipendendo dalla specifica disciplina di settore – relativa, ad esempio, ai termini di decadenza, prescrizione o inoppugnabilità degli atti amministrativi – che precluda ogni ulteriore azione o rimedio giurisdizionale, rientra nell’ambito dell’ordinaria attività interpretativa di competenza del giudice comune (principio affermato, ex plurimis, sin dalle sentenze n. 58 del 1967 e n. 49 del 1970).
Inoltre, come il limite dei «rapporti esauriti» ha origine nell’esigenza di tutelare il principio della certezza del diritto, così ulteriori limiti alla retroattività delle decisioni di illegittimità costituzionale possono derivare dalla necessità di salvaguardare principi o diritti di rango costituzionale che altrimenti risulterebbero irreparabilmente sacrificati. In questi casi, la loro individuazione è ascrivibile all’attività di bilanciamento tra valori di rango costituzionale ed è, quindi, la Corte costituzionale – e solo essa – ad avere la competenza in proposito.
Una simile graduazione degli effetti temporali delle dichiarazioni di illegittimità costituzionale deve ritenersi coerente con i principi della Carta costituzionale: in tal senso questa Corte ha operato anche in passato, in alcune circostanze sia pure non del tutto sovrapponibili a quella in esame (sentenze n. 423 e n. 13 del 2004, n. 370 del 2003, n. 416 del 1992, n. 124 del 1991, n. 50 del 1989, n. 501 e n. 266 del 1988).
Il compito istituzionale affidato a questa Corte richiede che la Costituzione sia garantita come un tutto unitario, in modo da assicurare «una tutela sistemica e non frazionata» (sentenza n. 264 del 2012) di tutti i diritti e i principi coinvolti nella decisione. «Se così non fosse, si verificherebbe l’illimitata espansione di uno dei diritti, che diverrebbe “tiranno” nei confronti delle altre situazioni giuridiche costituzionalmente riconosciute e protette»: per questo la Corte opera normalmente un ragionevole bilanciamento dei valori coinvolti nella normativa sottoposta al suo esame, dal momento che «[l]a Costituzione italiana, come le altre Costituzioni democratiche e pluraliste contemporanee, richiede un continuo e vicendevole bilanciamento tra princìpi e diritti fondamentali, senza pretese di assolutezza per nessuno di essi» (sentenza n. 85 del 2013).
Sono proprio le esigenze dettate dal ragionevole bilanciamento tra i diritti e i principi coinvolti a determinare la scelta della tecnica decisoria usata dalla Corte: così come la decisione di illegittimità costituzionale può essere circoscritta solo ad alcuni aspetti della disposizione sottoposta a giudizio – come avviene ad esempio nelle pronunce manipolative – similmente la modulazione dell’intervento della Corte può riguardare la dimensione temporale della normativa impugnata, limitando gli effetti della declaratoria di illegittimità costituzionale sul piano del tempo.
Del resto, la comparazione con altre Corti costituzionali europee – quali ad esempio quelle austriaca, tedesca, spagnola e portoghese – mostra che il contenimento degli effetti retroattivi delle decisioni di illegittimità costituzionale rappresenta una prassi diffusa, anche nei giudizi in via incidentale, indipendentemente dal fatto che la Costituzione o il legislatore abbiano esplicitamente conferito tali poteri al giudice delle leggi.
Una simile regolazione degli effetti temporali deve ritenersi consentita anche nel sistema italiano di giustizia costituzionale.
Essa non risulta inconciliabile con il rispetto del requisito della rilevanza, proprio del giudizio incidentale (sentenza n. 50 del 1989). Va ricordato in proposito che tale requisito opera soltanto nei confronti del giudice a quo ai fini della prospettabilità della questione, ma non anche nei confronti della Corte ad quem al fine della decisione sulla medesima. In questa chiave, si spiega come mai, di norma, la Corte costituzionale svolga un controllo di mera plausibilità sulla motivazione contenuta, in punto di rilevanza, nell’ordinanza di rimessione, comunque effettuato con esclusivo riferimento al momento e al modo in cui la questione di legittimità costituzionale è stata sollevata. In questa prospettiva si spiega, ad esempio, quell’orientamento giurisprudenziale che ha riconosciuto la sindacabilità costituzionale delle norme penali di favore anche nelle ipotesi in cui la pronuncia di accoglimento si rifletta soltanto «sullo schema argomentativo della sentenza penale assolutoria, modificandone la ratio decidendi […], pur fermi restando i pratici effetti di essa» (sentenza n. 148 del 1983, ripresa sul punto dalla sentenza n. 28 del 2010).
Né si può dimenticare che, in virtù della declaratoria di illegittimità costituzionale, gli interessi della parte ricorrente trovano comunque una parziale soddisfazione nella rimozione, sia pure solo pro futuro, della disposizione costituzionalmente illegittima.
Naturalmente, considerato il principio generale della retroattività risultante dagli artt. 136 Cost. e 30 della legge n. 87 del 1953, gli interventi di questa Corte che regolano gli effetti temporali della decisione devono essere vagliati alla luce del principio di stretta proporzionalità. Essi debbono, pertanto, essere rigorosamente subordinati alla sussistenza di due chiari presupposti: l’impellente necessità di tutelare uno o più principi costituzionali i quali, altrimenti, risulterebbero irrimediabilmente compromessi da una decisione di mero accoglimento e la circostanza che la compressione degli effetti retroattivi sia limitata a quanto strettamente necessario per assicurare il contemperamento dei valori in gioco>

SOLO LA CORTE COSTITUZIONALE PUO' DUNQUE LIMITARE L'EFFICACIA RETROATTIVA DELLA PRONUNCIA DI INCOSTITUZIONALITA' IN MERITO AI RAPPORTI NON ESAURITI

lunedì 9 marzo 2015

Sentenza copia/incolla? Non è nulla se ...

Con la sentenza n. 642 del 16/01/2015 le Sezioni Unite della Cassazione hanno affermato il seguente principio di diritto:
<"Nel processo civile - ed in quello tributario, in virtù di quanto disposto dal secondo comma dell'art. 1 d.lgs. n. 546 del 1992 - non può ritenersi nulla la sentenza che esponga le ragioni della decisione limitandosi a riprodurre il contenuto di un atto di parte (ovvero di altri atti processuali o provvedimenti giudiziari) eventualmente senza nulla aggiungere ad esso, sempre che in tal modo risultino comunque attribuibili al giudicante ed esposte in maniera chiara, univoca ed esaustiva, le ragioni sulle quali la decisione è fondata. È inoltre da escludere che, alla stregua delle disposizioni contenute nel codice di rito civile e nella Costituzione, possa ritenersi sintomatico di un difetto di imparzialità del giudice il fatto che la motivazione di un provvedimento giurisdizionale sia, totalmente o parzialmente, costituita dalla copia dello scritto difensivo di una delle parti">

Nella sentenza si legge tra l'altro che <Il codice prevede infatti solo che il giudice assuma una decisione ed esponga poi le ragioni di tale decisione (coincidenti o meno che siano, in tutto o in parte, con quelle esposte da uno dei contendenti a sostegno delle proprie pretese), ma non prevede altresì che, in una sorta circolo vizioso, esponga anche i motivi per i quali abbia eventualmente condiviso le ragioni sostenute da una delle parti, posto che tali ragioni, se valide, sono idonee di per sé a sostenere la decisione assunta, senza che sia necessaria una ulteriore motivazione riguardante (non già le ragioni della decisione bensì) le ragioni per cui le suddette "ragioni della decisione" corrispondono a quelle esposte da una delle parti a sostegno delle proprie pretese.
Certo, è possibile che quanto affermato da una parte sia "contrastato" (in fatto e in diritto) dall'altra parte, ed in questo caso la sentenza nella quale il giudice si limitasse a riportare le ragioni esposte da una delle parti senza prendere in considerazione quelle contrapposte dall'altra sarebbe censurabile se ed in quanto oggettivamente incompleta, non certo per la mancata esplicitazione dei motivi di adesione alle tesi di una delle parti né tanto meno per il solo fatto che la relativa motivazione risulta costituita dalla mera riproduzione del contenuto di un atto di parte.
L'unico problema reale di una motivazione siffatta sorge infatti solo se il contenuto dell'atto riportato a scopo motivazionale non è idoneo e sufficiente a sostenere la decisione. Esclusivamente in questo caso quindi, e solo per tale motivo, non per altri, la sentenza sarebbe censurabile.>