Così la Corte Costituzionale con la sentenza 103/2013
<Questa Corte ha ripetutamente affermato che il divieto di retroattività
della legge, previsto dall’art. 11 delle disposizioni sulla legge in
generale, pur costituendo valore fondamentale di civiltà giuridica, non
riceve nell’ordinamento la tutela privilegiata di cui all’art. 25 Cost.
(sentenze n. 78 e n. 15 del 2012, n. 236 del 2011, e n. 393 del 2006), e
che «il legislatore – nel rispetto di tale previsione – può emanare
norme retroattive, anche di interpretazione autentica, purché la
retroattività trovi adeguata giustificazione nell’esigenza di tutelare
principi, diritti e beni di rilievo costituzionale, che costituiscono
altrettanti «motivi imperativi di interesse generale», ai sensi della
Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali
(CEDU). La norma che deriva dalla legge di interpretazione autentica,
quindi, non può dirsi costituzionalmente illegittima qualora si limiti
ad assegnare alla disposizione interpretata un significato già in essa
contenuto, riconoscibile come una delle possibili letture del testo
originario (ex plurimis: sentenze n. 271 e n. 257 del 2011, n. 209 del
2010 e n. 24 del 2009). In tal caso, infatti, la legge interpretativa ha
lo scopo di chiarire «situazioni di oggettiva incertezza del dato
normativo», in ragione di «un dibattito giurisprudenziale irrisolto»
(sentenza n. 311 del 2009), o di «ristabilire un’interpretazione più
aderente alla originaria volontà del legislatore» (ancora sentenza n.
311 del 2009), a tutela della certezza del diritto e dell’eguaglianza
dei cittadini, cioè di principi di preminente interesse costituzionale.
Accanto a tale caratteristica, questa Corte ha individuato una serie di
limiti generali all’efficacia retroattiva delle leggi, attinenti alla
salvaguardia, oltre che dei principi costituzionali, di altri
fondamentali valori di civiltà giuridica, posti a tutela dei destinatari
della norma e dello stesso ordinamento, tra i quali vanno ricompresi il
rispetto del principio generale di ragionevolezza, che si riflette nel
divieto di introdurre ingiustificate disparità di trattamento; la tutela
dell’affidamento legittimamente sorto nei soggetti quale principio
connaturato allo Stato di diritto; la coerenza e la certezza
dell’ordinamento giuridico; il rispetto delle funzioni
costituzionalmente riservate al potere giudiziario (sentenza n. 209 del
2010, citata, punto 5.1, del Considerato in diritto).>
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